Nel 1982 avevo cinque anni e i miei ascoltavano ”La voce del
padrone”: esattamente come avviene nel processo di imprinting,
nel mio periodo sensibile, stavo inconsapevolmente seguendo un
maestro. Che, fortunatamente, era Franco Battiato.
In effetti non capivo granché di quei testi, quasi niente a dire la verità,
e una serie di fraintendimenti mi avrebbero portato, più tardi, da
adolescente, a farmi delle grandi domande.
Mi ricordo nitidamente, per dirne uno, l’associazione tra il divieto di
sosta permanente, la permanente di mia madre (“ogni tanto devo
fare la permanente”, diceva, “i bigodini tengono poco…”) e quella frase che
martellava in tutte le radio, in tutti i juke-box e nella mia piccola testa:
“cerco un centro di gravità permanente”.
Ma cosa ho scoperto, negli anni successivi alla mia infanzia, attraverso
l’approfondimento e la ricerca e, soprattutto, attraverso l’incontro,
a mia volta, con uomini straordinari? Moltissimo. E l’essermi
cimentato con un adattamento cameristico di questo album mi ha
fatto entrare ancora di più nei meandri dell’opera.
”Centro di gravità permanente” è una canzone che funziona,
magicamente, per un misto di maestria della scrittura e fortuna, ma
soprattutto per un’alchimia perfetta tra il mondo alto, colto e quello
irriverente e giocoso tipici della natura di Battiato, non solo di quella
musicale, ma anche di quella umana.
Tralasciando la struttura armonica, melodica e ritmica e gli arrangiamenti
(che trovano un preciso equilibrio, fondando un nuovo genere, grazie
soprattutto agli interventi di Giusto Pio), lo stratagemma
lirico di Battiato è ancora quello di fondere realtà e finzione, mettendo
l’ascoltatore nella sua stessa posizione e quindi facendogli rivivere a sua
volta realtà e emozioni come in un gioco di ruolo. Nell’album precedente
aveva scritto “Un giorno sulla Prospettiva Nevsky per caso vi
incontrai Igor Stravinsky”: e in effetti tutti noi che abbiamo amato
quel brano ci siamo ritrovati al centro di quella prospettiva immaginandoci
quella scena, e l’incontro con quel grande musicista…
Lo stesso avviene qui: Battiato si immagina e ci fa immaginare alcune
situazioni come fossero vissute da lui in prima persona, al limite del
surreale, mettendo dentro citazioni letterarie e dislocando nello spazio e
nel tempo il protagonista, che è lui e che siamo noi. La forma della strofa
è quella tipica dell’elenco, un susseguirsi di immagini e
situazioni.
E allora iniziamo col vedere… dove? Nella Francia del nord? una donna con un
ombrello cinese (la Cina ritornerà spesso nella canzone…)
Una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù
Poi arriva la prima citazione letteraria: Franco è un grande lettore e
dunque attinge e rielabora le sue visioni:
Capitani coraggiosi (il famoso romanzo di R. Kipling), furbi contrabbandieri macedoni
Dalla Francia ci siamo spostati in Macedonia, e da qui ancora più a est:
Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia di Ming
Il riferimento è al gesuita italiano (euclideo, cioè seguace degli
insegnamenti rigorosi e razionali del matematico greco Euclide)
Matteo Ricci, vissuto nel XVI secolo, missionario in oriente che si
camuffava da monaco buddista per entrare nelle grazie dell’impero orientale
e evangelizzare la Cina dal suo interno. La critica, anche se molto sottile,
è diretta all’ordine della Compagnia di Gesù e dunque alla Chiesa Cattolica
che nei secoli ha sempre cercato la supremazia sulle altre dottrine.
La strofa fa mezzo giro del mondo in termini spaziali e resta indefinita in
termini temporali, eppure abbiamo vissuto quelle precise immagini le quali,
anche se non abbiamo colto il senso storico e i riferimenti, ci hanno
incuriosito. Suona tutto perfettamente.
Il ritornello non si fa attendere e va dritto al punto dando un senso anche
a quelle immagini che apparivano solo elencate:
Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente - over and over again -
Battiato non ha mai fatto segreto dei suoi studi e delle sue letture e,
assieme alla sua stretta cerchia di amici e collaboratori (su tutti
Francesco Messina) ha divulgato l’opera di Georges Ivanovič
Gurdjieff, filosofo e mistico armeno vissuto a cavallo tra l’800 e
il 900. E proprio da Gurdjieff, anzi, dal libro più noto in cui vengono
spiegate e divulgate le sue teorie dal suo allievo Piotr D.
Ouspensky (“Frammenti di un insegnamento sconosciuto”), arriva
l’ispirazione del nostro ritornello, il senso e il titolo della canzone:
Il centro di gravità permanente è lo stato intermedio (in tutto
sono sette) della coscienza di un uomo dai comportamenti completamente
meccanici e vittima dei suoi centri motorio, emozionale e intellettuale che
di volta in volta predominano sulla vita cosciente. Attraverso un lungo
lavoro su se stesso e in seguito a sforzi di carattere ben definiti, l’uomo
può raggiungere il primo stato di coscienza che porta a un equilibrio tra i
centri - il centro di gravità permanente, appunto - che, a questo livello,
non possono avere una preponderanza sugli altri. Uno stato in cui anche
l’osservazione del mondo esterno è in perfetto equilibrio con le proprie
idee e non in balia di quelle degli altri.
Il discorso rischia di dilungarsi davvero molto, ma spero di avervi dato lo
stimolo per continuare la ricerca da soli… Ma, in sostanza, che cosa ci ha
voluto dire Battiato? Che il mondo, quello descritto nella prima strofa in
quelle tre immagini così inusuali, è letto dal nostro io e dalla
nostra coscienza in modo sempre diverso per via della meccanicità dei nostri
comportamenti e della schiavitù che ci impongono di volta in volta le
emozioni, finché non troviamo un equilibrio che ci possa dispiegare la
verità.
Tornando al pezzo, ora Battiato, con la seconda strofa, per la terza volta
ritorna in Cina:
Per le strade di Pechino, erano giorni di maggio, tra noi si scherzava a raccogliere ortiche
Quindi, mentre Matteo Ricci evangelizza l’impero, alcuni ragazzi si
divertono per strada: ma di nuovo Battiato si immedesima (tra noi…),
forse facendo confluire nell’invenzione un vero ricordo della sua infanzia
siciliana. E noi, di nuovo, ci immedesimiamo in un’immagine, a mio avviso,
la più poetica del brano.
Improvvisamente (lo attesta anche una serie di sferzate di chitarra
elettrica) Battiato si lancia in un’invettiva. Qui il punto, spesso
frainteso, è questo: Battiato non pensa quello che dice (così come non
preferiva l’insalata a Beethoven o l’uva passa a Vivaldi…) ma si fa
portavoce di un sentimento comune, allora e oggi, di critica estrema e
spesso insensata, il classico “non mi piace niente (anche quello che non
esiste…il free-jazz-punk-inglese è al limite dell’esistenza…) e quindi mi
lamento”, proprio in virtù del fatto che siamo perennemente vittime dei
nostri comportamenti meccanici, delle idee degli altri e lontani da un
centro di gravità permanente.
Non sopporto i cori russi, la musica finto-rock, la new wave italiana, il free-jazz-punk-inglese e neanche la nera africana
Di conseguenza, allora: cerco un centro di gravità permanente… Il
resto del testo è un perfetto cut-up di brani famosi, già sperimentato in
album precedenti e in questo (“Cuccurucucù”), tutti raccordati e inanellati
in un rotolante giro di DO.
Vi consiglio, se volete capire meglio come Battiato arriva a scrivere un
testo così e se volete conoscere una serie di aneddoti interessanti su
questo album, il nuovo e interessante libro di Fabio Zuffanti, “Battiato,
La Voce del Padrone - 1945 -1982: nascita, ascesa e consacrazione del
fenomeno”